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Margherita Orsolini La valutazione dei disturbi della lettura Gli psicologi che operano nei servizi materno infantili, nei centri specialistici ospedalieri, in centri di riabilitazione, in servizi di consulenza psicologica per la scuola si trovano spesso a “valutare” bambini che hanno difficoltà di lettura. Gli scopi che orientano la valutazione sono in parte diversi a seconda del contesto in cui ci si trova ad operare. In alcuni contesti, come i servizi materno infantili, gli operatori si trovano a dover rispondere alla domanda di genitori e insegnanti “che cos’è che non funziona nel bambino?”. A questa domanda si risponde in genere cercando l’etichetta diagnostica che meglio possa adattarsi al caso. La valutazione cerca così di stabilire: (i) il livello raggiunto dal bambino nella lettura; (ii) la generale efficienza cognitiva (misurata attraverso il famoso QI); (iii) l’eventuale presenza di fattori emotivi (es., ansia), sociali (es., grave deprivazione), educativi (es., scarsa frequenza a scuola) che abbiano interferito negativamente con gli apprendimenti scolastici.
Se il livello di rapidità e/o correttezza della lettura è molto al di sotto (due o più deviazioni standard sotto la media) di quello che ci si aspetterebbe in base all’età, se altri aspetti dello sviluppo cognitivo e linguistico sono nella norma, se si possono escludere fattori negativi di tipo emotivo, sociale, educativo, si applica la diagnosi di dislessia o di disturbo specifico dell’apprendimento. Quest’ultima etichetta diagnostica viene in genere utilizzata quando una varietà di apprendimenti (es. lettura, scrittura, calcolo) sono molto al di sotto di quello che ci si aspetterebbe in base all’età del bambino e alla sua generale efficienza cognitiva.
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Sono malato? Un’etichetta diagnostica introduce spesso nei pensieri impliciti di genitori e insegnanti l’idea che il bambino abbia un “danno” neurologico (qualcosa di simile a una malattia) e che tutte le difficoltà sperimentate con la lingua scritta derivino da questo. Si tratta di un pensiero poco utile e poco corretto. Le difficoltà di lettura e scrittura hanno basi neurobiologiche che tuttavia sono ben diverse da un danno cerebrale; si tratta piuttosto di un funzionamento non ottimale dell'attivazione e del coordinamento di alcune aree cerebrali. Il disturbo di lettura, così come altri disturbi dell’apprendimento, è una variazione dello sviluppo che assomiglia molto di più ad una differenza individuale (come può esserlo una bassa statura) che a una malattia. Quando siamo di fronte ad un bambino con un disturbo della lettura o del calcolo, o di entrambi, è molto alta la probabilità che il disturbo abbia alla base un ampio pool di fattori genetici che influenzano diverse componenti dello sviluppo (come è avvenuto, ad esempio, quando un bambino ha presentato lievi difficoltà nella lingua parlata e successivamente ha mostrato un disturbo della lettura) e dell’apprendimento. Gli studi di Plomin e collaboratori (2005) suggeriscono che i disturbi “specifici” dell’apprendimento sono un’estensione quantitativa di quelle che invece definiremmo “difficoltà”: un identico patrimonio genetico può essere alla base di prestazioni basse o di prestazioni veramente deficitarie. Non si può dunque compiere una superficiale assimilazione tra disturbo dell’apprendimento e malattia. Nel caso dei disturbi dell’apprendimento non siamo di fronte a malattie ma a variazioni -geneticamente determinate- dello sviluppo individuale che incidono sulla funzionalità (più o meno ottimale) di alcuni circuiti cerebrali. La considerazione di un continuum tra normalità e patologia non deve però indurre una sottovalutazione dell’impatto negativo che il disturbo o la difficoltà dell’apprendimento possono avere nel benessere psicologico. I bambini che leggono con molta difficoltà hanno una sofferenza: non sperimentano un felice inserimento a scuola, non provano benessere in una serie di apprendimenti che coinvolgono la lingua scritta, hanno un profondo senso di frustrazione e di ansia, un drastico abbassamento della stima di sé. |